Michel Hazanavicius

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La caratteristica di Michel Hazanavicius è quella di volare fuori dai radar. Cineasta cinefilo onnivoro, talvolta frainteso da cinefili simili a lui che non riescono a stare dietro ai suoi bruschi cambi di tono e progetto, Hazanavicius va considerato un regista consapevole, teorico, postmoderno. 

La sua fama è inevitabilmente legata alla formidabile idea di inventare un film muto in epoca di cinema contemporaneo. A dimostrazione che il cineasta di oggi ha in dotazione ogni strumento possibile, The Artist dieci anni fa è arrivato come un meteorite sulla distribuzione internazionale, vincendo prepotentemente un Oscar dall’esterno ben prima del fenomeno Parasite. Certo, Hazanavicius andava a pescare nell’immaginario americano del musical e nel muto sgargiante della Hollywood anni Venti, ma con un sapore europeo e una capacità straordinaria di valorizzare quelli che sarebbero diventati due divi del cinema francese e non solo, Berénice Béjo e Jean Dujardin.  

Visto che non era un esordio (pur avendone la freschezza), tutti si chiesero da dove proveniva quel talento così dissimile dai rovelli “nouvelle vague” solitamente esportati da Parigi. E quante labbra si arricciarono, scoprendo che Hazanavicius aveva diretto due parodie del cinema spionistico alla James Bond! Ma i due Agente Speciale 117 altro non erano che operazioni simili a The Artist. Il calco stilistico, la reinvenzione comica, il secondo grado appaiono le medesime, pescando da una tradizione transalpina che va da Louis De Funès a Pierre Richard fino a Dany Boom. Mescolando satira del colonialismo francese e operazione-nostalgia (con dottissimi riferimenti ai film anni ’60 di Fantomas e dello spionistico tecno-comico di André Hunebelle), il regista fa molto di più che solleticare il ventre molle del pubblico pop francofono.  

Ma Hazanavicius è capace anche di retoriche alte e di drammi “grand public”, come The Search dove la guerra cecena fa da sfondo a un melodramma turgido, legato a immaginari opposti ai moduli della commedia, con uno sfondo che non esiteremmo a definire à la King Vidor se non avesse un modello di riferimento ben preciso: Odissea tragica di Zinnemann. 

Successivamente, ecco il film-chiave per la comprensione del cinema e della cinefilia hazanaviciusiana. Il mio Godard ha costituito una specie di scandalo per i cinefili godardiani che, purtroppo, hanno compreso ben poco dell’operazione del regista. Andando alla radice dell’ironia anarcoide alla base della Nouvelle Vague, quella del cineasta francese non è affatto una reductio maliziosa e crudele ai danni di un maestro filosofico del cinema d’autore, bensì il tentativo di ritornare a sorridere di un momento deliziosamente liberatorio della storia del cinema (facendolo cioè esattamente con quell’atteggiamento che non prendeva nulla sul serio). Il mio Godard (titolo italiano a modo suo geniale) è più filologicamente “nouvelle” che mai ed è la versione slapstick della biografia culturale di una nazione, dove il singolo – Godard – conta solamente per il suo arco di trasformazione – da sabotatore beffardo a venerato maestro. Qui si torna ai sabotaggi. E per fortuna.  

Rimane da citare Gli infedeli, commedia a episodi dove Hazanavicius si diverte insieme ad alcuni colleghi a rifare la commedia all’italiana – specificamente quella dei frammenti – degli anni Sessanta. La conoscenza enciclopedica della nostra filmografia nazionale risulta molecolare e stupefacente, con una  grottesca malinconia di fondo che emerge dai suoi segmenti, e citazioni che spaziano da Monicelli a Risi, arrivando a Luciano Salce e a La voglia matta.  

Dopo una parentesi fiabesca (Il principe dimenticato), un nuovo film comico sugli zombi (Coupez!) e persino un film d’animazione in arrivo, possiamo serenamente dire che Hazanavicius (e la sua musa Béjo) non si fanno mai trovare dove si crede che saranno. E alla luce di un corpus ormai cospicuo di opere, dopo il Premio Oscar è venuto il momento di un Premio più organicamente cinefilo, per comprenderne contorni, perimetri, spiazzamenti e idee creative, riconoscendogli il ruolo che merita nell’industria (e nello sguardo) del cinema contemporaneo.