Gianclaudio Cappai

CAPPAI1

Guardando con attenzione alla filmografia di Gianclaudio Cappai, possiamo agevolmente distinguere alcuni elementi ricorsivi, perlopiù scelte formali e tematiche, che sottendono a una precisa ricerca enunciativa. Si pensi, per esempio, a certe inquadrature, a macchina a mano, nelle quali i soggetti ripresi sono parzialmente occultati da elementi scenografici, come a voler nascondere lo sguardo e la presenza in scena dell’autore; o all’utilizzo bilanciato, in fase di scrittura, di principi narrativi giustapposti per creare una struttura solida, chiara e irrigata di sottotesto nelle scene e nei dialoghi; o ancora a certi topoi contenutistici ravvisabili, soprattutto, nelle dinamiche interne famigliari e nella dialettica tra queste e uno o più elementi esterni intrusivi. In più occasioni si è parlato di questi come “film d’atmosfera”, non basta, infatti, parlare di “atmosfere” nella pretesa di poter riassumere quelle che sono invece complesse coesistenze tra personaggi e paesaggi, tra luce e pellicola, tra volti e ottiche, da dover interrogare, nostra volta, in ogni fotogramma da lui concepito. A darcene prova sono soprattutto i tre film qui selezionati per l’occasione.

Nelle diciannove inquadrature dell’incipit di Purché lo senta sepolto (2006) si schiudono già molti dei diversi aspetti commentati. A brevi panoramiche fluide sono accostati bruschi movimenti di macchina che incarnano la presenza del regista, e la nostra, nel freddo paesaggio congelato in un tempo mai definito. Ad abitarlo, Samuele, la madre, il passante Fabrizio e una distesa di carcasse di animali, sepolte con cura dal ragazzo allo scopo di far da questi reperire i suoi messaggi al defunto padre. Ogni singolo frammento sembra perciò accludere a sé una moltitudine di fattori, siano questi per l’appunto formali o tematici, pronta a esplodere quando accostata nell’intarsio narrativo eseguito dal regista.

Un’operazione, questa, che si riflette altresì in So che c’è un uomo (2009), mediometraggio presentato nella sezione Corto Cortissimo della 66ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, e feritoia di un quadro famigliare soffocato dalle tensioni climatiche innescate dall’ambiente e dai personaggi. Che si trattino dunque di ferite, legami, desideri e quant’altro, queste dinamiche vengono accuratamente seminate in un “non-detto” che precede l’inesorabile tragedia finale. A distanza di quasi sette anni, l’evoluzione di questi aspetti sfocia infine in quel Senza lasciare traccia (2016). Seppur nei suoi limiti, l’esordio al lungometraggio conferma appieno la maturità e lo sguardo autoriale raggiunto negli anni dal regista.