Asghar Farhādi

FARHADI

L’arte del dilemma e l’estetica delle biforcazioni. Se fosse possibile (ma non lo è) riassumere in uno slogan il cinema di Asghar Farhadi potremmo cercare di definirlo in questo modo. I suoi film sono racconti sociali che somigliano a thriller, affreschi minuziosi che vengono via via prosciugati dalla tensione di una scelta. I protagonisti fanno qualcosa che non avevano previsto e quella briciola comportamentale diventa via via un sasso, un macigno e spesso una valanga che li travolge. Ogni azione ne scatena delle altre, il primo dilemma si moltiplica in altri dubbi e in altre decisioni che rischiano di peggiorare sempre più la situazione. La biforcazione morale diventa narrativa, e lo spettatore si trova ad osservare un mondo che si complica come una spirale. 

Non bastasse questo meccanismo di scrittura (perché il cinema di Farhadi è un grande cinema di scrittura, senza che questo diminuisca in alcun modo le sue abilità di regista, che ne sono il compimento e la sublimazione), c’è anche un lavoro molto sorprendente sui personaggi. Anche se siamo inevitabilmente portati a identificarci per il protagonista e le sue fragilità o le sue paure, ciò non significa che i suoi soggetti siano trasparenti.  

Pensiamo al Rahim di Un eroe. Dapprima ci sembra un povero diavolo che ha commesso errori veniali e che viene troppo duramente maltrattato dal suo creditore. Lentamente cominciamo però a dubitare della sua storia e della sua onestà. Tanto quanto i media intorno a lui oscillano dalla iniziale esaltazione alla successiva demonizzazione, anche lo spettatore si pone delle domande e cerca di capire se le azioni opportunistiche e sciocche di Rahim facciano parte dell’ingenuità del personaggio oppure se vi siano calcolo, astuzia, ipocrisia. Farhadi lavora sempre con sottigliezza, non separa buoni e cattivi della società iraniana, non esalta il popolo in quanto tale, non mette forzatamente le classi una contro l’altra. Riesce a dire qualcosa della realtà persiana in modi autentici e profondi, privilegiando una vitale complessità contro il film a tesi. 

Anche il film che lo ha lanciato a livello internazionale, About Elly, racconta di una sparizione quasi antonioniana (L’avventura è un modello evidente) in cui un weekend tra borghesi diviene un piccolo jeu de massacre basato principalmente sulle bugie: un cumulo di omissioni e infingimenti che cercano di tenere insieme i desideri di una donna e la presentabilità etica col risultato di schiacciare tutti i personaggi in un unico senso di colpa. E una vittima che di colpe ne ha davvero poche.  

A sua volta, il Premio Oscar al Miglior Film Straniero per Una separazione rende l’uomo e la donna (la coppia) figure al tempo stesso particolarissime e universali. Ma è una terza persona, la badante Razieh, la vera vittima delle regole e dei limiti imposti dal Corano e dalle leggi non scritte che la comunità più conservatrice mette in atto. Lo scontro di classe non si esplicita in modo consapevole, ma i due borghesi al limite del divorzio e la domestica col marito disoccupato si trovano in dissidio di fronte a una Legge che non si sa se possa essere considerata più inumana o kafkiana.  

Il resto della filmografia farhadiana (Il cliente, per esempio, commento a margine degli altri titoli) sembra ruotare intorno ai cardini dei tre film più celebri, compresi quelli non distribuiti all’estero della prima parte della carriera – tutt’altro che prove immature, anzi esempi di talento artistico già evidente e formato. E se la realtà nazionale che conosce meglio sembra la più adatta a ospitare i racconti morali del nostro tempo, le trasferte nel cinema internazionale (Il passato, Tutti lo sanno) saggiano la forza dell’autore in territori meno esplorati. Il titolo di Maestro, per Asghar Farhadi, è pienamente meritato.